Un reportage che ci racconta l’Africa post-coloniale in modo autentico.
Un Moravia avventuriero, senza paura, che amava spingersi nei luoghi in cui sulle mappe c’era ancora scritto “vuoto” oppure “nulla” anche “disubbidendo” alla raccomandazioni degli autisti indigeni: “Signore, lì c’è gente non buona, sono di un’altra tribù e hanno le lance.
“È un’Africa fuori dal tempo, sospesa tra la preistoria e il futuro. La storia è infatti una dimensione che non appartiene a questo paese, ma è subordinata a fatti ed equilibri che appartengono altrove: all’Europa e all’America, soprattutto”.
In questo reportage, Moravia raramente accenna ai suoi compagni di viaggio; si percepisce che non è da solo solo perché usa costantemente la prima persona plurale: «voliamo… arriviamo».
Ma tra i suoi compagni di viaggio, si cela un nome altrettanto principale nella letteratura italiana e lo si scopre quando Moravia scrive: «… Naturalmente Pasolini punta l’obiettivo».
Uno dei passaggi che, secondo me, racchiude il senso di questo libro, costruito in modo pressoché perfetto e che dà un’immagine chiara, quasi cinematografica, è quello scritto in una zona remota dell’Uganda:
Moravia scrive: “Nella sala non c’è che un tavolino. Tre africani, vestiti all’occidentale stanno intorno un vassoio sul quale c’è un intero capretto arrosto; ne strappano brani con le mani. Quindi uno di loro vede che io taglio il corned beef col mio coltello da caccia e, in buon inglese, me lo chiede in prestito. Mi alzo e glielo do. Lui lo prende, mi guarda, e quindi, cortesemente e scrupolosamente, si informa: “E tu a quale tribù appartieni?”
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